Wasp Infinity Project, ovvero Progetto Infinito – ma anche WIP, cioè ‘Work In Progress’, ossia lavori in corso. Questo è il titolo del nuovo contenitore dedicato all’approfondimento sulla tecnologia della stampa 3D da un punto di vista prettamente culturale. Ne parleremo in articoli e chiacchierate con i protagonisti e protagoniste della rivoluzione 3D, ma anche con persone che lavorano nel mondo dell’arte, del design, della filosofia, della poesia: donne e uomini che in qualche modo hanno avuto un rapporto con questa tecnologia in costante evoluzione.
Abbiamo deciso di inaugurare WIP ponendo alcune domande a Enrico Dini, figura di rilievo nel mondo della stampa 3D italiana e internazionale, laureato presso l’Università di Pisa in Ingegneria civile – ma anche artista, filosofo, inventore e sperimentatore. Personalità multiforme quindi, in cui ognuna delle sue molteplici facce caratterizza un approccio nel lavoro e nello sviluppo della sua ricerca. Enrico Dini dell’artista ha sicuramente la forte personalità che lo spinge “verso il desiderio di essere originale e irripetibile nel processo creativo”, affrontando grandi progetti visionari che possano eternarlo. Del filosofo ha quella enorme curiosità di capire il Tutto dell’esistenza, che lo porta a esplorare freneticamente i saperi e i linguaggi più diversi nella conoscenza dei meccanismi più intimi della creazione. Dell’inventore, infine, ha il DNA trasmesso dalla storia familiare: il padre, anch’egli ingegnere e stretto collaboratore di Corradino D’Ascanio, partecipò alla ricerca e all’esecuzione di due grandi progetti che hanno caratterizzato e trasformato la storia non solo italiana del ‘900: l’elicottero e la Vespa.

Enrico Dini è il degno erede della propria storia familiare e di quella di una Italia creativa e imprenditoriale che non dovremo mai dimenticare. Nel 2008, al termine di un lungo percorso di ricerca sull’automazione robotica, Dini ha realizzato un prototipo di stampante 3D su larga scala, il cui risultato sarà “the Radiolaria Pavilion“, prima struttura edilizia stampata in 3D. Riconosciuto nel mondo come pioniere della stampa 3D su larga scala, in occasione della Conferenza internazionale sulla fabbricazione digitale del RILEM (Réunion Internationale des Laboratoires et Experts des Matériaux), gli è stato assegnato il prestigioso Pioneering Achievement Awards del 2018.

Andrea Nurcis – Lei afferma che la tecnologia di stampa 3D da lei inventata le permette di concretizzare una sua idea di bellezza. Può spiegarci qual è il suo ideale di bellezza, da cosa nasce e in che modo le sue macchine l’hanno aiutato a realizzarla?
Enrico Dini – Sono pervenuto a questo concetto di bellezza attraverso un lungo percorso inventivo in cui ho sentito tante voci, tante opinioni, tanti pensieri nel corso di questi ultimi 15 anni. È una idea di bellezza che si è venuta formando nel tempo: nel corso del tempo ho modellato, perfezionato questa idea e non sono neanche sicuro che questa idea di bellezza sia condivisibile, non ho questa presunzione. Tuttavia questa idea di bellezza almeno per me funziona. Cominciamo col dire che secondo Stephen Wolfran e la sua teoria degli automi cellulari, la natura còmputa. Il nostro cervello perfettamente in linea con la sua natura elaborativa, còmputa anch’esso e percepisce nettamente quelli che sono i processi che nascondono una computazione dietro di sé, ovvero quella degli algoritmi. Il nostro cervello apprezza gli algoritmi: ama per esempio ascoltare la musica, è incuriosito, stimolato e divertito dall’ armonia, ossia da sequenze logiche, melodiche e armoniche che fanno sì che il cervello quasi si diverta a prevedere quello che viene dopo un certo suono, percependo quindi come bellezza qualcosa che nasconde una logica dietro di sé. La nostra mente apprezza l’equilibrio, il dosaggio e la giusta ponderazione di più elementi assieme. Così abbiamo una netta percezione del perfetto o comunque del buono. La bellezza attiene quindi anche a un concetto di funzionalità perché quando si parla di storia evolutiva di una forma di accrescimento, qualunque sia il risultato finale, tutti gli elementi sono finalizzati a rendere attrattivo quello che noi vediamo.

“Certo, l’ideale per me sarebbe quello di piantare un seme con il codice genetico di accrescimento di un palazzo in calcestruzzo. Ma in mancanza di questa possibilità di produrre un organismo vivente a forma di edificio, già con la stampa 3D a sezioni possiamo ottenere questo tipo di libertà espressiva.”
– Nella sua ricerca l’architettura ha un posto centrale…
L’architettura è la messa in opera di materiali reperibili un tempo sul luogo, oggi convergenti da tutte le parti del mondo, allo scopo di creare una base minima per realizzare un tetto sopra la nostra testa, dal menhir ad un elemento trilitico: architettura essenzialmente significa creare un elemento orizzontale che gravi e che ci protegga. Nel corso dei millenni siamo andati nella direzione di ottimizzare la messa in opera dei materiali col minimo sforzo e compatibilmente alle tecniche costruttive disponibili. Se andiamo nell’antica Grecia, i greci avevano la pietra e potevano soltanto fare strutture in pietra. Potevano fare colonne e architravi e a un certo punto hanno trovato un compromesso fra la distanza delle colonne e la dimensione dell’architrave ed è nata quella che è l’arte greca con tutte le regole di proporzioni fra l’altezza, la larghezza, gli elementi: le famose regole auree e quant’altro. Anche le famose scanalature delle colonne greche hanno una funzione: sarei curioso di chiedere a qualche architetto se conosce questa funzione. In sostanza le scanalature servono a creare dei camini di raffreddamento sulle colonne in modo da evitarne il deperimento nel corso del volgere di pochi decenni. Una colonna liscia esposta al sole probabilmente finirebbe per deteriorarsi, invece in questo modo è tenuta raffrescata da questi camini invisibili di raffreddamento, così come ci sono anche sul cactus o anche sulle zebre con le strisce bianche nere che nel mezzo alla Savana se ne stanno sotto il sole cocente e riescono a stare fresche in virtù di questa alternanza di colori bianchi e neri. Quindi voglio dire che ogni elemento architettonico anche apparentemente estetico in realtà cela dietro di sé una funzione…
– Lei è considerato il pioniere della stampa 3d su larga scala proprio nella costruzione di edifici. In questa strada da lei aperta lo stesso concetto di progettazione cambia…
Io sono stato testimone negli anni ‘70 (mio padre lavorava alla Piaggio ed era il direttore dell’ufficio calcoli) del fatto che qualunque cosa venisse concepita dalla mente umana non potesse essere rappresentata su carta per essere riprodotta da altri che a livello bidimensionale. C’era il vincolo che i disegni dovevano essere comprensibili a chi poi li avrebbe dovuti materializzare. Il vincolo era progettuale prima di tutto e poi un vincolo anche nelle tecniche costruttive per interpretare correttamente e materializzare quello che veniva immaginato. Sono entrato nel mondo del lavoro nei primi anni 90 e ancora allora dopo 2000 anni tutto quello che doveva essere progettato veniva realizzata al tecnigrafo. I sistemi di computer AIDED design , i sistemi CAD muovevano veramente i primi passi. Io ho dovuto chiedere il permesso all’università per poter utilizzare un plotter che avevo visto nel 73 con mio padre a Parigi alla Hewlett-Packard quando eravamo andati a visitare gli stabilimenti per comprare questo dispositivo. Costava una follia, costavano una follia i pennini. Quindi fino all’avvento nell’architettura della stampa digitale è stato possibile realizzare disegni solo attraverso righe e punti. Io sono cresciuto in questo mondo e si immagini la mia sorpresa quando alla fine degli anni ‘90 sono entrato in contatto con i primi modellatori di superfici e con i primi modellatori solidi come Pro Engineer, come Rhinoceros. Ero affascinato così come ero affascinato dalle prime macchine a controllo numerico e dai robot antropomorfi. E tutto questo ruotava intorno al concetto di plotter e di plotting nello spazio, come fa il mio caro amico Massimo Moretti di Wasp. Ma la vera illuminazione è venuta quando sono entrato in contatto con le stampanti digitali a polveri, alle soglie del Duemila. Queste macchine di rapid prototyping servivano a realizzare il maquette di oggetti in 3D materializzati senza vincoli costruttivi, perché la polvere permette di contrastare la forza di gravità e quindi di ottenere un effetto di sostegno a qualunque forma andaste materializzando. Certo, l’ideale per me, per realizzare un palazzo, sarebbe quello di piantare un seme con il codice genetico di accrescimento di un palazzo in calcestruzzo. Ma in mancanza di questa possibilità di produrre un organismo vivente a forma di edificio o comunque un elemento che si autocostruisce, uno scheletro piantando un seme, in attesa di questo, già con la stampa 3D a sezioni possiamo ottenere questo tipo di libertà espressiva. Quindi la ragione per cui ho inventato la stampante a sabbia era proprio perché io volevo realizzare strutture ossee trabecolate che permettessero di creare edifici il cui organismo strutturale fosse ottimizzato come quello delle nostre ossa.

– Quale è il suo rapporto con l’arte?
Penso come tutti i veri artisti, di avere quella fortissima spinta verso il desiderio di essere originali e irripetibili nel loro processo creativo. L’atto artistico secondo me è una sorta di prototipo di un processo. Il prodotto di un pensiero che è il frutto di un grande sforzo di sintesi di un linguaggio. Questa sintesi crea quell’ elemento originale da cui poi possono essere derivate delle attività, dei mestieri: le attività artigianali sono quelle che riproducono delle sequenze operative inventate dall’artista. Anche un ingegnere può essere un artista come chiunque partorisca un metodo, un processo che non esisteva prima è che diventa linguaggio originale e irripetibile ma codificabile da altri. Il mio rapporto con l’arte è quello dell’atto artistico come atto eroico, come atto in cui c’è una forte dose di desiderio di affermazione di sé e di ego in campo. Ovviamente l’artista si nutre del proprio atto artistico e poi lo rigetta via da sé nel momento in cui lo ha terminato e lo disconosce per certi versi, ma nel momento in cui libera la sua opera e la da ad altri, lui diventa in qualche modo immortale perché nessuno si prenderà mai la briga di distruggere ciò che viene riconosciuto come valore. L’artista in questo modo eterna se stesso. Vivo il mio lavoro come arte in quanto espressione della mia originalità del mio ego e del mio atto eroico per eternare me stesso attraverso opere compiute e belle.
– Ci sono artisti del presente o del passato che sente vicini al suo lavoro?
Gli artisti che hanno lasciato in me una qualche traccia sono tanti, quelli che mi vengono in mente all’impronta, andando in modo cronologico e per ordine di apparizione ma non di quando mi ci sono imbattuto, come prima cosa che mi salta agli occhi sono le incisioni rupestri della Valcamonica: sono affascinato dalla capacità di rappresentare su pietra e in modo drammatico le scene di caccia. Venendo più avanti direi Prassitele, Fidia, Canova e poi Raffaello, Caravaggio, Michelangelo, ma soprattutto Donato Bramante a cui debbo molto. Ai tempi nostri tutta la corrente del Bauhaus del Razionalismo e infine i miei due grandi idoli che sono Pier Luigi Nervi e Antonio Gaudì a cui ho dedicato il progetto di Shape : Antoni Gaudì è stato il vero precursore dell’ottimizzazione topologica, il quale per primo ha cercato di fare strutture in conglomerato che fossero puramente compresse. Così mi piace molto Mondrian, Pollock, e nell’ambito degli scultori Umberto Boccioni futurista, di cui ho realizzato una replica della sue sculture andate perdute, grazie all’opera dell’ artista inglese Matt Smith, che partendo dalle foto in bianco e nero 2D che ritraggono Boccioni con sullo sfondo alcune sculture andate perdute è riuscito a riprodurre il file per la riproduzione tridimensionale dal quale ho fatto fare una riproduzione in marmo e che ora fa bella mostra di se nel giardino di casa mia.
– Lei si definisce quindi oltre che ingegnere e inventore visionario, anche artista e filosofo. Nell’antichità tra queste discipline non v’era una netta separazione come quella avvenuta nell’epoca moderna; separazione tanto netta che oggi ci appare difficilmente riunificabile. Eppure crediamo che sia necessario che venga ritrovata quell’ unità perduta a favore di una visione dell’esistenza meno riduzionista. Cosa ne pensa e come fa convivere nel suo lavoro le varie sfaccettature della sua personalità?
Dunque io vivo dalle mille sfaccettature della mia personalità nel modo più pieno in quanto ho strutturato la mia vita e segnatamente il mio lavoro, nella direzione di poter passare le mie 8-10 ore saltabeccando ecletticamente da un campo del sapere all’altro senza soluzione di continuità. Io ho un team di lavoro con cui giornalmente mi confronto per lo sviluppo delle tecnologie, dove spessissimo mi appiglio a concetti filosofici per far capire quello che è il principio informatore di funzionamento di alcuni dispositivi piuttosto originali che stiamo sviluppando. Oggi noi viviamo una epoca fortunatissima, almeno dal mio punto di vista di persona che ha avuto accesso al sapere attraverso i libri che bisognava andare a cercarli nelle biblioteche per trovare saperi particolari e che oggi invece sono attingibili soltanto con un click su Internet. Io cavalco Internet come se avessi un cavallo al galoppo perché godo degli strumenti conoscitivi acquisiti in epoca analogica per poter dominare quelli che sono le derive epistemologiche derivate da questa abbondanza di sapere disponibile in cui si è portati non a leggere, meditare, riflettere, rileggere, rimeditare, ma a scorrere su un testo alla ricerca di quelle quattro-cinque parole chiave che ci interessano per dare una risposta alla nostra curiosità, tutto è semplice facile e veloce anche troppo. La multidisciplinarietà è la conseguenza o l’opportunità offerta dalla democratizzazione del sapere. Io in cinque minuti posso sapere che cos’è un algoritmo genetico, scaricare da Internet l’immagine di un intestino e capirne il funzionamento perché magari questo può essere funzionale a realizzare delle cose che ho in mente, posso andarmi a cercare delle formule che avrei potuto accedervi solo se avessi seguito particolari corsi di laurea. Adesso io posso spaziare liberamente da un campo all’altro, diciamo avendo i mezzi per poter unire nuovi saperi, fonderli assieme per produrre nuovi saperi e quindi produrre dei saperi ibridi e quindi generare di conseguenza know-how inattesi o sorprendenti, il che sarebbe stato pressoché impossibile concepire solo poche decine di anni fa, per per una impossibilità temporale di accedere a migliaia di testi stando comodamente seduti dietro un PC e scaricando PDF e Excel a manetta e furiosamente andando a pescare rubare attingere saperi che poi si vengono ad unire insieme. Ora io mi interrogo se questo modo di manipolare, gestire e utilizzare i dati offerte dalla rete in modo consapevole, quale io ritengo di poter fare essendo reduce da un esperienza come dicevo analogica, dell’apprendere quindi la fatica meditativa, contemplativa e rielaborativa, legata alla lettura e rilettura del l’unico libro di cui ero in possesso con alcuni concetti densi che dovevo fare miei, rispetto a un millennial che magari trova tutta questa messe di dati disponibili e non ha provato la fatica della ricerca e dell’apprendimento.

– La tecnologia di stampa 3D da lei elaborata si basa su un principio molto differente da quella sviluppata, ad esempio, da Wasp: se Wasp costruisce l’oggetto attraverso un processo di estrusione, simile a quello utilizzato dalla vespa vasaia per costruirsi il suo nido di fango, le sue macchine lo costruiscono invece attraverso un getto di micro gocce di materia dal cui accumulo nasce la forma. Nel suo caso mi viene da pensare a un processo chimico-fisico più vicino a quelli che avvengono nella geodinamica della formazione delle rocce. Può raccontarci da cosa le è nata questa idea e come più precisamente funziona il processo di stampa?
Dunque l’idea di stampare le case in 3D è nata guardando una stampante a polveri della Z Corporation nel 2003-2004. Era una macchina che mi affascinava, dove il processo di fabbricazione di un oggetto a strati è ottenuto con una sorta di stampante 2D modificata. Una stampante 2D a cui è stato aggiunto un asse verticale, la carta è stata sostituita da della polvere e come inchiostro viene usato un liquido legante che solidifica in modo selettivo le particelle. Questo processo di fabbricazione è stato inventato al MIT da Emanuel Sachs negli anni ‘80, io come inventore mi sono limitato a traslare questo processo di fabbricazione nato per realizzare delle maquette e fare rapid prototyping: l’ho traslato nel mondo delle costruzioni scalandolo da 100 a 1000 volte. Via la parola powder, che vuol dire polvere, dentro le parole sabbia o particella o ghiaia o qualunque altro materiale granulare per realizzare strutture in conglomerato. Ora La cosa curiosa è che se uno va a esaminare il risultato quando ho cominciato a realizzare queste arenarie artificiali – purtroppo oggi che il materiale non viene certificato ci siamo dovuti adattare a stampare in cemento – noterà che in origine questo progetto consisteva in un vero e proprio processo di litificazione, cioè un processo accelerato di formazione di una pietra arenaria. La cosa curiosa, dicevo, è che questa tecnica di fabbricazione permette di realizzare una pietra in 3D e la tecnica stereolitografia è una parola composta di tre parole greche che vogliono dire: stereo, quindi tridimensionale; lithos, che vuol dire pietra; graphos, che vuol dire grafia. Quindi la macchina io la chiamavo macchina di stereolitografia proprio perché stampava la pietra in 3D in modo tridimensionale. Purtroppo questo termine stereolitografia nulla a che fare con la parola che lo disegna.
– La qualità delle realizzazioni prodotte dalle sue stampanti si avvicina molto, in aspetto e complessità strutturale, a quella della realtà naturale. Questa qualità “naturale” è ricercata oppure è solo la conseguenza tecnica della sua particolare tecnologia di stampa 3D?
La naturalità delle delle mie creazioni è connaturata a due o a tre questioni: una riguarda proprio com’era la tecnologia – adesso purtroppo siamo diventati maledettamente più bravi ma all’epoca noi non eravamo in grado di stampare per bene, non riuscivamo a controllare i parametri di processo correttamente, per cui qualunque forma per quanto liscia noi andassimo a stampare veniva fuori completamente deformata dagli strati e dall’eccesso, dalla mancanza di materiale e quindi l’effetto selvaggio era legato proprio a una povertà tecnologica costruttiva. Poi ovviamente niente vieta di realizzare forme naturali partendo dalla scansione di una roccia oppure di un qualche algoritmo per andare a stampare le rocce finte. Ma la l’effetto naturale, ribadisco, parte da una scarsa capacità di governo del processo.
– Dal suo punto di vista che tipo di sviluppo dovrebbe avere la tecnologia della stampa 3D nel futuro e a quali progetti attualmente sta lavorando?
La stampa 3d dovrebbe essere rivolta sempre verso il bene e non verso il male. Purtoppo ci sono persone malvagie che hanno intravisto nella stampa 3d la possibilità di realizzare armi invisibili ai controlli dei metal detector e applicazioni che nulla hanno a che fare con la nobiltà di questa tecnologia. Il futuro della stampa 3d deve rivolgersi alle generazioni che verranno dopo di noi come strumento digitale per rendere meno costoso a livello energetico la realizzazione di fabbricati, con un basso impatto ambientale, riducendo le emissioni di anidride carbonica, ritornando verso l’utilizzo dei materiali locali, includendo le popolazioni nel processo di fabbricazione verso la riconsiderazione di una architettura spontanea, come abbiamo fatto per migliaia di anni, dove la ricerca della bellezza rimane sempre come valore centrale. Attualmente noi siamo focalizzati su dei progetti pilota per la realizzazione di fabbricati a basso costo per i rifugiati, finanziati fondamentalmente dai Governi del Medio Oriente, ma anche dal Brasile e altrove…ma sarebbe troppo lungo e complesso da spiegare.